Recensioni scritte da Vito Sorrenti
* |
LUCIANO SCALIA: "Certi voti..." Riflessioni
|
L’aspirazione all’eternità è insita nell’animo umano. E per tutti, soprattutto per chi ha consapevolezza della fragilità e della caducità della stirpe degli uomini e sia animato al contempo, anche dal desiderio di lasciare ai posteri testimonianza del proprio vissuto, arriva il momento in cui sentiamo l'urgenza interiore di sfogliare a ritroso i fogli del diario della vita. E nel fare ciò, avvertiamo forte il desiderio di trascrivere le pagine più interessanti in bella copia, per renderle più facilmente leggibili se non alle future generazioni almeno alle persone più care.
Questo, a mio parere, il motivo che ha spinto Luciano Scalia, ex Ufficiale Medico presso la Marina Militare e ora Ammiraglio in pensione, a pubblicare quella che si presenta come la sua opera prima, ma, in pari tempo, come la sua opera omnia, intitolata “Certi voti…” Riflessioni.
Un titolo, a mio giudizio, non casuale ma scelto dall’autore per esplicitare al meglio il contenuto della sua opera, ossia le sue riflessioni. Le riflessioni di un uomo dal carattere pensoso e profondamente umano che non vuole che le sue sensazioni, le sue emozioni, i suoi pensieri, le sue percezione vadano perdute e, per evitare che ciò avvenga, li registra, di volta in volta, sulle pagine bianche.
Il volume, pubblicato in proprio, presso la ISSA Pubblicità di Agusta, in elegante veste tipografica, riproduce nella prima di copertina, un dipinto giovanile dello stesso autore, intitolato “IL PENSATORE” (1961), e raccoglie, come lascia intendere il titolo dell’opera testé citata, i frutti dell’intelletto e della creatività dell’autore medesimo.
Inoltrandosi nella lettura si ha l’impressione di leggere, come già detto, un diario, il diario di bordo di un’anima sensibile affacciata sul mondo. Impressione peraltro avvalorata dalla professione svolta dall’autore e dal fatto che a margine di ogni testo è riportata la data di composizione, il primo del 1964 e l’ultimo del 2018.
Sono prevalentemente poesie in lingua, alternate ad altre in vernacolo siciliano, i cui temi sono quelli che da sempre costituiscono oggetto di riflessione degli uomini pensanti. Quelle giovanili, inserite nella parte iniziale del libro, riportano alla mente echi leopardiani, e dànno testimonianza della maturità raggiunta dall’autore. Quelle successive evidenziano le variazioni stilistiche e di contenuto dovute alle conoscenze acquisite e alle esperienze maturate dall’autore nel corso della vita e con il dipanarsi del tempo.
I temi trattati con tono intimistico e con delicata mestizia, rivelano gli stati d’animo di un uomo dedito alla meditazione che non disdegna, però, di volgere lo sguardo su tutto ciò che lo circonda e di registrarne le impressioni con sofferenza e partecipazione. Gli stati d’animo di chi si pone domande sulla Vita e i suoi misteri, con lo sguardo e la disposizione dell’uomo buono che nutre sentimenti di amore per tutti, per tutto, per l’Universo intero e li manifesta con i suoi versi. I più accattivanti, a parere di chi scrive, sono quelli che riguardano gli affetti familiari intrisi come sono di malinconia, di rimpianto, d’affetto, di tenerezza, d’amore, di sofferenza, di dolore ecc.
Ma il tema prevalente e costante riguarda la solitudine, quella solitudine cantata dal grande Quasimodo nella sua celebre lirica “Ed è subito sera”. La solitudine, “… la cara solitudine” (… dolce amico) - peraltro dichiarata con le parole autografe leggibili nella presentazione del libro: …”sono “solo” riflessioni con il dialogo mio e costante con lei… la cara solitudine amica inseparabile da sempre.” - presente fin dalla prima giovinezza, diviene compagna di viaggio col trascorre delle stagioni e gli inevitabili eventi dolorosi apportati dalle stesse, per poi diventare presenza costante per un’anima consapevole di vivere la stagione invernale della propria vita, la vita di un uomo che si sente “…‘n vecchiu!, / e si pripara a u gran momentu / e pigghia “cunfidenza” / cu “signora” morti.” (Quannu…).
La cara solitudine di un’anima travagliata da mille pensieri che si domanda: “…ma picchi su sempre tristi / i me penseri!? / Picchi, su sempri senza suli, / senza i culuri / di la gioia e di l’Amuri?!” (… Picchi a menti…?!); di un’anima che dice: “… staiu murennu iornu appressu iornu / e nuddu si nn’adduna, / sugnu un iornu malato e / nautru sufferenti, sutta l’occhi i tutti, /e nuddu dici, ma cchi hai’?” (Certi voti mi veni di pinsari…). Nessuno se ne accorge, dice Luciano Scalia, nessuno chiede, ma che cosa hai? Neanche le persone care, neanche i figli.
Che dire di questi versi? Che dire di queste riflessioni? Se non che sono una dolorosa testimonianza dei tempi in cui viviamo. Una denuncia contro l’accidia dilagante e l’anoressia dei sentimenti che affligge sempre di più il nostro mondo. Un mondo sempre più abitato da persone che hanno smarrito per strada la lucerna dei padri e brancolano nel buio del loro edonismo e del loro egoismo; di persone che si sono assuefatti a tutto e non provano più con la dovuta intensità, né passioni né emozioni; di persone che non sanno più amare, neanche i loro genitori.
E allora ben vengano i versi dei Poeti, come Scalia, che denunciano, la solitudine e l’abbandono in cui versano le anime fragile, il più delle volte affidate alle cure delle badanti straniere; in cui annaspano le anime nude che mendicano una carezza, un sorriso un gesto d’amore e muoiono sole fra gelide mura.
Vorrei concludere questa mia breve e modesta disamina riportano integralmente la lirica che chiude l’opera di Luciano Scalia, intitolata “Il mio silenzio siderale”, perché a mio giudizio, è quella più ricca di fascino e dà misura delle qualità artistiche dell’autore:
“Sempre più spesso, / vivo ormai da tempo, / fuori dai frastuoni / del Mondo, / ma sono in quello che / chiamo “il mio silenzio”, / che non è fatto di assenza / di suoni e di parole, ma / di vibrazioni dell’Anima, / un dialogo di lunghezze / d’onda che hanno un po’ / di siderale, / in cui non devo capire, / è come se sapessi “già” / non so cosa, non so perché, / ma lo sento, / è il silenzio… fra io e me, / in cui non vedo le cose, / e neppure so / quali sono i sentimenti; / certezze sconosciute / fatte solo di quelle sensazioni / che non vengono dal mondo, / non sono dell’esterno, sono / di quel qualcosa misterioso / ch’è l’Essenza / del macro e micro cosmo / in seno all’Infinito… mai / fatto e solo Eterno.
Vito Sorrenti
Questo, a mio parere, il motivo che ha spinto Luciano Scalia, ex Ufficiale Medico presso la Marina Militare e ora Ammiraglio in pensione, a pubblicare quella che si presenta come la sua opera prima, ma, in pari tempo, come la sua opera omnia, intitolata “Certi voti…” Riflessioni.
Un titolo, a mio giudizio, non casuale ma scelto dall’autore per esplicitare al meglio il contenuto della sua opera, ossia le sue riflessioni. Le riflessioni di un uomo dal carattere pensoso e profondamente umano che non vuole che le sue sensazioni, le sue emozioni, i suoi pensieri, le sue percezione vadano perdute e, per evitare che ciò avvenga, li registra, di volta in volta, sulle pagine bianche.
Il volume, pubblicato in proprio, presso la ISSA Pubblicità di Agusta, in elegante veste tipografica, riproduce nella prima di copertina, un dipinto giovanile dello stesso autore, intitolato “IL PENSATORE” (1961), e raccoglie, come lascia intendere il titolo dell’opera testé citata, i frutti dell’intelletto e della creatività dell’autore medesimo.
Inoltrandosi nella lettura si ha l’impressione di leggere, come già detto, un diario, il diario di bordo di un’anima sensibile affacciata sul mondo. Impressione peraltro avvalorata dalla professione svolta dall’autore e dal fatto che a margine di ogni testo è riportata la data di composizione, il primo del 1964 e l’ultimo del 2018.
Sono prevalentemente poesie in lingua, alternate ad altre in vernacolo siciliano, i cui temi sono quelli che da sempre costituiscono oggetto di riflessione degli uomini pensanti. Quelle giovanili, inserite nella parte iniziale del libro, riportano alla mente echi leopardiani, e dànno testimonianza della maturità raggiunta dall’autore. Quelle successive evidenziano le variazioni stilistiche e di contenuto dovute alle conoscenze acquisite e alle esperienze maturate dall’autore nel corso della vita e con il dipanarsi del tempo.
I temi trattati con tono intimistico e con delicata mestizia, rivelano gli stati d’animo di un uomo dedito alla meditazione che non disdegna, però, di volgere lo sguardo su tutto ciò che lo circonda e di registrarne le impressioni con sofferenza e partecipazione. Gli stati d’animo di chi si pone domande sulla Vita e i suoi misteri, con lo sguardo e la disposizione dell’uomo buono che nutre sentimenti di amore per tutti, per tutto, per l’Universo intero e li manifesta con i suoi versi. I più accattivanti, a parere di chi scrive, sono quelli che riguardano gli affetti familiari intrisi come sono di malinconia, di rimpianto, d’affetto, di tenerezza, d’amore, di sofferenza, di dolore ecc.
Ma il tema prevalente e costante riguarda la solitudine, quella solitudine cantata dal grande Quasimodo nella sua celebre lirica “Ed è subito sera”. La solitudine, “… la cara solitudine” (… dolce amico) - peraltro dichiarata con le parole autografe leggibili nella presentazione del libro: …”sono “solo” riflessioni con il dialogo mio e costante con lei… la cara solitudine amica inseparabile da sempre.” - presente fin dalla prima giovinezza, diviene compagna di viaggio col trascorre delle stagioni e gli inevitabili eventi dolorosi apportati dalle stesse, per poi diventare presenza costante per un’anima consapevole di vivere la stagione invernale della propria vita, la vita di un uomo che si sente “…‘n vecchiu!, / e si pripara a u gran momentu / e pigghia “cunfidenza” / cu “signora” morti.” (Quannu…).
La cara solitudine di un’anima travagliata da mille pensieri che si domanda: “…ma picchi su sempre tristi / i me penseri!? / Picchi, su sempri senza suli, / senza i culuri / di la gioia e di l’Amuri?!” (… Picchi a menti…?!); di un’anima che dice: “… staiu murennu iornu appressu iornu / e nuddu si nn’adduna, / sugnu un iornu malato e / nautru sufferenti, sutta l’occhi i tutti, /e nuddu dici, ma cchi hai’?” (Certi voti mi veni di pinsari…). Nessuno se ne accorge, dice Luciano Scalia, nessuno chiede, ma che cosa hai? Neanche le persone care, neanche i figli.
Che dire di questi versi? Che dire di queste riflessioni? Se non che sono una dolorosa testimonianza dei tempi in cui viviamo. Una denuncia contro l’accidia dilagante e l’anoressia dei sentimenti che affligge sempre di più il nostro mondo. Un mondo sempre più abitato da persone che hanno smarrito per strada la lucerna dei padri e brancolano nel buio del loro edonismo e del loro egoismo; di persone che si sono assuefatti a tutto e non provano più con la dovuta intensità, né passioni né emozioni; di persone che non sanno più amare, neanche i loro genitori.
E allora ben vengano i versi dei Poeti, come Scalia, che denunciano, la solitudine e l’abbandono in cui versano le anime fragile, il più delle volte affidate alle cure delle badanti straniere; in cui annaspano le anime nude che mendicano una carezza, un sorriso un gesto d’amore e muoiono sole fra gelide mura.
Vorrei concludere questa mia breve e modesta disamina riportano integralmente la lirica che chiude l’opera di Luciano Scalia, intitolata “Il mio silenzio siderale”, perché a mio giudizio, è quella più ricca di fascino e dà misura delle qualità artistiche dell’autore:
“Sempre più spesso, / vivo ormai da tempo, / fuori dai frastuoni / del Mondo, / ma sono in quello che / chiamo “il mio silenzio”, / che non è fatto di assenza / di suoni e di parole, ma / di vibrazioni dell’Anima, / un dialogo di lunghezze / d’onda che hanno un po’ / di siderale, / in cui non devo capire, / è come se sapessi “già” / non so cosa, non so perché, / ma lo sento, / è il silenzio… fra io e me, / in cui non vedo le cose, / e neppure so / quali sono i sentimenti; / certezze sconosciute / fatte solo di quelle sensazioni / che non vengono dal mondo, / non sono dell’esterno, sono / di quel qualcosa misterioso / ch’è l’Essenza / del macro e micro cosmo / in seno all’Infinito… mai / fatto e solo Eterno.
Vito Sorrenti
* |
MARIA TERESA LIUZZO: ... ma inquieta onda agita le vene
|
Dopo aver letto l'autorevole giudizio critico di Giorgio Bàrberi Squarotti e la sintetica ma ispirata prefazione di Fulvio Castellani, mi sono soffermato sull'epigrafe posta all'inizio del poemetto: "Dal buio della coscienza emergono i sogni, ritornano alla creta, s'innalzano iridati verso placente di stelle", perché, a mio giudizio, tale epigrafe sembra posta li come un faro per illuminare il lettore, per indicargli il luogo da dove originano le parole, i colori, i suoni che danno forma e vita all'ultima opera, in ordine cronologico, di Maria Teresa Liuzzo. E in effetti, inoltrandosi nella lettura della silloge, si ha l'impressione di trovarsi davanti a delle sequenze oniriche, a delle visioni, a dei vaticini così ben descritti, così ben rappresentati da indurre il lettore a credere che siano attinti direttamente dall'inesauribile fonte dell'inconscio. E ciò è dovuto alla genialità della Liuzzo, alla sua capacità di plasmare, di modellare, di trasmutare le emozioni, le sensazioni, le intuizioni in parole, colori, suoni, luci e ombre, ovvero nella nobile materia necessaria a creare i luoghi surreali, gli scenari metafisici e le arcane figure della sua originalissima poesia. Una poesia di non facile interpretazione e non facilmente attingibile per l'uso ricorrente di forme ellittiche, di analogie.., ma anche di suggestive ed enigmatiche metafore che affascinano il lettore per la loro capacità evocativa e per la copiosa liricità. Una poesia che miscela sapientemente i colori della realtà con quelli dell'apparenza per dipingere il sogno. Un sogno generato da un pensiero mai pago e in continuo movimento fra spazi bui ed ombre, fra ancestrali fantasmi e solari evidenze. Un pensiero, quello della Liuzzo, che oscilla fra i tragici eventi del passato a quelli non meno tragici del presente. Un pensiero che "agita le vene" del poeta e fa del suo cuore un "vascello nella burrasca". Un pensiero che col suo incessante andirivieni dall'inconscio alla coscienza, dal sommerso alla superficie, dal buio alla luce riporta i sogni "alla creta" e li innalza "iridati / verso placente di stelle".. Se così è, allora il "Fuoco di verità / sui giorni senz'anima / ove l'ombra / trafuga e cela / linfe di terra..." altro non è che la sua poesia. Una poesia intrisa di echi evangelici e di risonanze bibliche, di miti e di riti che evocano brandelli di storia, di umana miseria, di vana gloria e, in pari tempo, memorie di dolore, di sofferenza. di lutto, s'uno sfondo di rovine materiali e morali. Una poesia impegnata "... A fugare inquietudini, /a incidere messaggi d'azzurro /su cime innevate". E in verità il poemetto è incastonato di messaggi. di oracoli, dì vaticini. Ma questi, lungi dal fugare le inquietudini, le accrescono con la drammaticità del loro dettato: "Scende la pioggia / a consolare il giglio, / nell'Eden tradito, / e già vede / il tempio profanato / e le spine / sulla fronte del Cristo. / Lager in Palestina. / Croci spinate e corone / sulle piaghe aperte"; con la denuncia delle offese, degli abusi, dei soprusi, delle prevaricazioni, delle oppressioni, delle violenze: "Moneta e ludibrio / nel gioco dei tribuni, / incessante martirio del Nazareno: / giustizia e carità gestiscono le fiere. Giungono venti di Grecia e Siria le rinnova il Sahèl piaghe d'Egitto. / La voce è nel tempio, vento / impetuoso su sacerdoti e mercanti: / riflettono spade ed elmi / corone di spine"; con la constatazione delle speranze tragicamente deluse: "Fra lusinghe e inganni. / il passo della storia: s'apre / all'amore la Rosa del Messia, / ma ogni petalo infeltrisce / l'umiltà obliata, Campi minati / alla sete di giustizia / e la Terra Promessa / il Golgota rinnova in Palestina. / La coscienza riceve / l'obolo serale"; con l'orrenda evidenza dei sanguinosi eventi quotidiani: "Semi di odio cancellano / memorie di rami / e grattaceli di fumo / usurpano foreste"; con la cupezza degli oracoli: "... Miniera / di solitudine è il futuro". Un pensiero in movimento, dicevo, fra i tragici eventi del passato e del presente, ma non solo. Un pensiero che sente lo scorrere del tempo come un "frantumarsi di onde", che vede la precarietà dell'esistere e la fragilità dell'essere ed è coscen-te del fatto che "Siamo alberi, ebbri nella pioggia / e mele sul capo / in attesa della freccia", così com'è consapevole della vanità del tutto "Meta del sogno è la morte /fra penombre e barbagli". e che, nonostante tutto, sa cogliere l'"ineffabile / presenza- assenza". E sa effondere messaggi intrisi d'amore, di grazia, di fede e di speranza. Un pensiero libero, generoso, sensibile che osserva ed assor-be l'ansia, l'angoscia, lo sgomento, il lutto che fluttuano sugli occhi dell'effimera esistenza, per trasformarli in canto. Un canto dell'anima: sognante e dolente, potente e sfumato, simbolico e mistico, intessuto di immagini raffinate e suggestive, tragiche e misteriose "che consacrano l'esemplarità del discorso così accesamente visionario fra cielo e passione del cuore" (G. Bàrberi Squarotti).
Vito Sorrenti
Vito Sorrenti
* |
'Mia Sorella" di Anna Pisano SG Stampa - San Marco Argentano (CS) |
Quando le corde di liuto dell'anima arata grondano note di dolente velluto anche le pietre si sciolgono al pianto. E chi, leggendo "Mia Sorella", opera prima di Anna Pisano, dedicata alla sorella scomparsa prematuramente, non sente i suoi occhi inumidirsi di pianto, farà bene a chiedersi, con Dante: "... E se non piangi, di che pianger suoli?"*. Perché il dolente "Diario" di Anna Pisano infonde nel lettore pena e commozione insieme e gli tocca il cuore, fin dalla lettura dei primi righi, con la sincerità del dettato, la semplicità del linguaggio e la musica mesta che trabocca da ogni sua pagina. La scrittrice, travolta dal dolore e in preda allo sconforto più atroce per l'inconsolabile perdita dell'amata sorella che, poco prima di spegnersi, le affida le sue bambine: Beatrice, di pochi anni e Michela, di pochi mesi, sente l'urgenza interiore e l'insopprimibile bisogno di dare voce allo sconforto e di esprimere il proprio lutto, non solo per trovare sollievo all'angoscia che le opprime il petto, ma, soprattutto, per riprendere quel colloquio drammaticamente interrotto. E dal suo cuore sconvolto sgorgano i ricordi: la gioia e l'emozione per la nascita di Cecilia; la nostalgia per l'infanzia felice e spensierata che accomuna le due sorelle; i momenti lieti dell'età adolescenziale e l'affettuoso rapporto che le unisce; i primi dis-tacchi, per motivi di studio; la trepidazione e l'attesa per il ritorno a casa, per il ritrovarsi di nuovo insieme. E così, mediante il doloroso ma catartico uso del flash-back, l'autrice racconta gli episodi salienti dell'esistenza della sorella e delle persone a lei più care e, in pari tempo, stabilisce una continuità narrativa nel passaggio fra il passato, ormai irrimediabilmente perduto, e il presente, che le consente di dare corpo e anima al suo libro. Un libro composto da pagine intense e dense di emotività, di commozione e di echi manzoniani. Pagine inchiostrate con le lacrime dell'autrice quelle che rievocano la primavera felice, allietata dai giochi, dalle intese e dalle feste con gli amici e coi parenti. Pagine intrise di malinconia e di rimpianto quelle che evocano i giorni luminosi, ilari e gai della stagione adolescenziale in contrapposizione con quelli bui, vuoti, senza senso e senz'anima dell'amaro presente. Pagine infuse di orgoglio e fraterno affetto quelle che rievocano il percorso artistico di Cecilia: dalle prime lezioni di pianoforte agli applauditi concerti. Pagine intrise di tenerezza quelle che ripercorrono la storia d'amore di Cecilia e Sasà: dai primi approcci al matrimonio. Pagine pregne di pathos e di angoscioso sgomento quelle che raccontano il calvario di Cecilia, fra struggimento e speranza, impotenza e disperazione. Dal manifestarsi della malattia, la cui gravità viene mascherata dalla gravidanza - Cecilia, infatti, è in attesa della secondogenita - alla drammaticità della diagnosi che getta nell'angoscia tutti i componenti della famiglia; dall'ansiosa attesa dell'intervento chirurgico alla fede riposta nei viaggi della speranza, fino alla straziante agonia e all'ultimo abbraccio. Qui, in queste pagine, è palpabile lo strazio di chi, impotente davanti al dramma che si va consumando, si domanda il senso della sofferenza, il senso della vita, il perché della morte. Qui la fede in un Dio buono e giusto vacilla. Qui emergono i dubbi. Qui emergono la fragilità dell'umana stirpe e la vanità del tutto. Un libro, questo della Pisano, dove due stati d'animo, fra essi contrastanti, predominano su tutto. Da una parte la gioia dell'eterna primavera - coi suoi giorni lieti, i suoi sogni dorati e le sue fulgide rose; dall'altra il gelido autunno, cupo, tetro, senza luce, dove le rose si sono trasformate in mesti crisantemi; e nel mezzo il cuore dell'autrice che ha una missione da compiere: fare da mamma, oltre che ai suoi due figli, alle figlie della sorella scomparsa. Ed è questo compito che costituisce per l'autrice la sua ancora di salvezza, ossia la più importante motivazione per continuare il cammino anziché ripiegarsi malinconicamente su se stessa. Un libro che si legge in un soffio e che, a parere di chi scrive, per la storia che racconta: una storia drammatica intrisa di profonda mestizia; per l'ambiente dove si svolge: Pietrapaola, un piccolo paesino della Calabria dove i legami, gli affetti e i valori familiari sono ancora molto forti e molto sentiti; per i protagonisti, le cui caratteristiche psicologiche, morali e umane sono esemplari; per il rapporto fra il tempo della storia e il tempo della lettura; ha tutti gli elementi per una trasposizione cinematografica di grande successo. Lo prova il fatto che a lettura conclusa, ci si trova con lo stesso stato d'animo e con gli occhi intrisi di pianto, come se si fosse assistito alla proiezione cinematografica di una tragica storia d'amore. Solo che qui non abbiamo visto un capolavoro cinematografico frutto dell'immaginazione e della fantasia. Qui abbiamo letto una storia vera di una famiglia vera, normale, unita e felice che improvvisamente si trova immersa in una tragedia. Una di quelle tragedie che possono colpire qualsiasi famiglia. Ed è proprio per questo, a parere di chi scrive, che il dolore vero, sincero, inconsolabile di Anna Pisano s'infonde nel cuore del lettore a tal punto da renderlo vivo, sensibile e condivisibile.
Vito Sorrenti
* Dante, Inferno, Canto XXXIII
Vito Sorrenti
* Dante, Inferno, Canto XXXIII
* |
Maria Teresa Liuzzo "L'ombra non supera la luce"
|
"L'ombra non supera la luce". Questo il titolo, enigmatico ed ermetico, dell'ultima opera poetica, in ordine cronologico, della nota ed affermata poetessa calabrese Maria Teresa Liuzzo. La copiosa silloge, edita dall'A.G.A.R. Editrice di Reggio Calabria, si presenta in una elegante veste tipografica che mostra in copertina una riproduzione del "Suonatore di liuto" di Michelangelo Merisi, detto Il Caravaggio, e sul retro una bella foto dell'autrice; mentre all'interno, ad impreziosirla ulteriormente, vi sono intercalati delle riproduzioni di capolavori quali "Madonna Litta", di Leonardo; "Bacco", del già citato Michelangelo Merisi; "Chitarra e violino", di Pablo Picasso, ecc. I testi che dànno corpo alla raccolta, sono preceduti dall'illuminante prefazione di Stefano Mangione e dall'autorevole giudizio critico di Giorgio Bàrberi Squarotti, e sono seguiti dalla dotta e articolata postfazione di Mauro Decastelli e da saggi, giudizi e note critiche, sulle precedenti opere della Liuzzo, di alcuni eminenti critici letterari, fra i quali il compianto Peter Russell. La lettura delle composizioni che costituiscono la silloge, ci conduce nello "spazio lirico" dell'autrice, nella sua "dimensionalità metafisica", nel suo mondo trascendente. In altre parole, il lettore viene condotto nel mondo interiore della poetessa. In quel mondo dove fermenta il pensiero e sedimenta il silenzio, dove nasce la grazia e fiorisce la fede. In altri termini, in quel mondo che rimanda a sentimenti remoti, a emozioni intense, forti, sconvolgenti che scuotono l'anima e sferzano il cuore; a quei sentimenti e a quelle emozioni che infondono nell'anima stupore e dolore, orrore e sdegno, dubbi e rabbia, interrogativi e incertezze. Insomma a tutti quegli aspetti che inducono a una feconda meditazione esistenziale. Ed è qui, a nostro modo di vedere, in questo "spazio lirico", conteso da luce ed ombra, e dove la luce va intesa come speranza e l'ombra come disperazione, che L'ombra non supera la luce, ossia che mai la speranza soccombe alla disperazione. Ed è qui, in questa "dimensionalità metafisica", dove si alternano sentimenti contrastanti quali dolore e gioia, amore e odio, speranza e disperazione, che la poetessa attinge le sue visioni, i suoi oracoli, i suoi vaticini ed elabora le sue riflessioni, suoi concetti, la sua esperienza, la sua conoscenza. Ed è qui, in questo mondo trascendente, ove fermentano le memorie di eventi drammatici del passato e del presente con il loro carico di umane miserie, di lutti, di dolore, di morte che la poetessa attinge la luce, i colori, i suoni, i silenzi, i lamenti, il pianto, ossia tutti gli elementi necessari per creare gli scenari metafisici e i luoghi surreali ove si muovono le figure enigmatiche e suggestive della sua poesia. La poesia di un'anima visionaria dotata di grande sensibilità, di fervida fantasia, e di una ispirazione inesauribile e spontanea che in virtù di una elaboratissima tecnica di scrittura riesce a trasformare, o meglio, a trasfigurare gli elementi della realtà più ordinaria in poesia. Una poesia alta, disseminata di metafore enigmatiche e suggestive che affascinano il lettore per la loro capacità evocativa e per il copioso e altissimo lirismo. Una poesia meno ermetica rispetto alle opere precedenti, e quindi più fruibile, ma sempre affascinante e di non facile interpretazione per i non addetti ai lavori. Una poesia che affonda le sue radici fra le pareti del cuore e si nutre di tutto ciò che il cuore contiene per parlarci d'amore: "Spume di rive / lontane, i tuoi occhi, /fondali di mobili alghe.../ Quale corrente / muove il pensiero di te / e alla mia mente / risale attraverso gli stadi / di altri mari profondi, / da quale invisibile onda / è adagiato il tuo volto /sulle mie mani del cuore. / Mi raggiunge/ un brivido d'ambra / e un vento di palma, / talvolta nel sogno. /Altre volte improvviso / mi nasce fra le mani / un fiore di luce." (Spume di rive); per parlarci di dolore: "Nelle sale del canto, / boati e silenzi di morte / e stragi di fiori innocenti;.../ (San Giuliano 2002); per dirci che "... L 'ingiustizia pianta cadaveri nei campi / e danzano ombre in attesa di lune..." (Rosso sull'oceano); per esprimere le sue amare riflessioni sugli insopportabili egoismi degli uomini e sull'iniquità che si espande ogni giorno di più, privilegiando i soliti noti: "Renne e slitte / nella spianata / sotto il balcone. / Sui vetri appannati, / il panno apre una finestra / e l'occhio dirada le nebbie. / Babbo Natale ha fretta: / lontana è la Siberia / dal resto del mondo, / corre ed è già un punto / lontano. /Non è certo che arrivi.../ Forse si fermerà a riflettere, / a contare i doni, ad osservarli; / controllerà, forse, / gli indirizzi ... sempre gli stessi: / la ricca Europa occidentale / l'America felice, / il Nuovissimo mondo, / gli opulenti Emirati..." (Renne e slitte); per denunciare la follia dell'uomo, la sua insaziabile sete di potere e i suoi feroci barbarismi: "Sotto una gobba /di luna, ombre / muovono il silenzio; / pescatori trascinano; alghe-miraggi /fra oceani sospesi /in fantasie di flussi. /L'Angelo bianco / è in Croazia nei giardini / trasformati in cimiteri / tra le icone / mutilate dalla guerra: / l'occhio dei fanciulli / è il Cristo morente / sulla Croce. / Dall'ultima lacrima / è cancellato / il colore della morte. / Nella ciotola di pietra / è l'oro della luce, / l'acqua della vita." (Sotto una gobba); per invitare i potenti del mondo a: "Cancellare / schiavitù e miseria / far cessare / stragi e distruzioni, / eliminare / il terrore del pianeta: / provvedano / i guardiani del mondo!/ Con classe e levità, / gradevolmente, / come in uno /spettacolo di fuochi / d'artificio, che incanti / le marine notturne e sia / più ricco di stelle il cielo / e inondi di benefica / luce i nuovi deserti / orgoglio di sì bravi artificieri, / vendicatori delle torri" ; per rivendicare il ruolo della donna: "Essere donna / e madre / donna e schiava, / donna / e femmina, che fu / angelo del focolare. / donna / in carriera / il senso più vivo /dell'amore, / non ti conquista / l'onore / della Crocifissione -/ Donna! -/ Anche Dio / è maschilista / per la mente arrogante / dell'uomo, / ma la natura è donna / e, certo, è donna / la mente divina." (Essere donna); per fare dell'ironia su se stessa: "3 barattoli / di pomodori pelati, / 2 coca cola, / vino e birra, / amaro / pan carrè 3, / zucchero 2, olio / di mais / sottilette / olive insalata / verde parmigiano / intero e grattugiato / burro 1 panetto / provoletta 1 (una) / fettuccine 2 (confezioni / da gr. 500 / detersivo / x / lavastoviglie / e x bucato / saponette / tonno e / latte / carne e pesce / frutta (il dolce / domani...) / la spesa è fatta: / pregusto / il divertimento / tra i fornelli / della mia giornata / di festa!" (3 barattoli). Vi sono inoltre inclusi (pagg. 8 -14) 41 Haiku che, sebbene non rispecchiano i canoni giapponesi nella successione dei versi, sono comunque affascinanti per l'arditezza delle immagini e per la loro capacità evocativa: "Annuncia l'ombra / sere nel cuore. / Cercano stelle gli occhi.", e dove l'antitesi luce ombra viene riproposta. Questa breve disamina non può e non vuole esaurire i temi trattati che sono molti e tutti affrontati con padronanza e maestria. A noi sono piaciuti molto soprattutto le composizioni che denunciano il dolore dei vinti, dei dolenti, degli afflitti e quelle che denunciano le iniquità, le ingiustizie e le disumane aberrazioni che travagliano il mondo e che fanno sì che in alcuni luoghi vi sono persone che muoiono per malattie legate all'opulenza, ed in altri che muoiono di privazioni e di stenti: "Quale felicità aggiungere / ai bimbi fortunati?- / Che ci sia in qualche gerla / un vero dono, / per gli scriccioli africani, / i pozzi e l'acqua / per i deserti, il grano / contro la fame... (Quale felicità); e ancora: "Spegnere / la grande sete.../ Non siano gli occhi / dei bimbi / più grandi di volti / e il pianto / non alimenti paludi..." (Spegnere); il dramma dei profughi che si affidano a sinistri traghettatori dal cuore di ghiaccio. "Mercanti di ferite / attraccano a Lampedusa. / Su scogli / brandelli di sogni" (Scrivo il mio libro); i feroci barbarismi, l'odio razziale, le guerre che disseminano lutto, terrore, morte: "... Altari nei lager / ad eterna memoria / di barbarie. / Il giglio dell'amore / risorge / sopra croci uncinate." (Altari nei lager). A lettura ultimata si ha l'impressione di aver letto il diario di un'anima immersa in un abisso di angoscia e distruzione che annota giorno dopo giorno, i tragici avvenimenti che si susseguono e che la coinvolgono profondamente e penosamente, ma che, grazie alla fede che la sorregge, mai le viene meno la speranza di trova-re una via d'uscita; mai le viene meno il desiderio di dare il suo contributo per il recupero di quei valori e di quegli ideali che le società contemporanee sembrano aver smarrito nelle nebbie degli egoismi, dell'arroganza e della prepotenza. Ed è questo, a nostro parere, il compito vero del poeta, la sua più alta "missione letteraria", ossia calarsi nell'abisso vivo della società, della storia, della vita e là attingere i contenuti della sua poesia, perché solo così il suo messaggio è credibile, solo così il suo messaggio può destare emozione, solo così il suo messaggio potrà destare commozione nel cuore dell'uomo e indurlo al cambiamento, alla solidarietà, alla fratellanza.
Vito Sorrenti
Vito Sorrenti
* |
MARIA TERESA LIUZZO - Miosòtide (Non ti scordar di me)
|
L'ultima opera poetica, in ordine cronologico, della sempre più affermata poetessa calabrese Maria Teresa Liuzzo, la cui fama ha da tempo travalicato i confini nazionali, prende il nome da una pianta' i cui fiori sono comunemente detti "non ti scordar di me". La silloge di 88 poesie, edita dall'A.G.A.R. Editrice di Reggio Calabria, si presenta in una pregiata veste editoriale che mostra in copertina una riproduzione del "Saffo e Faone" di Jacques Louis David e sul retro una bella foto dell'autrice. I testi che danno corpo alla raccolta, sono preceduti dal sintetico quanto autorevole giudizio critico di Giorgio Bàrberi Squarotti e dalla dotta e illuminante prefazione di Mauro Decastelli e sono seguiti da una articolata e approfondita lettura critica dello stesso Decastelli e da alcuni giudizi sull'opera in questione e sulle precedenti opere della Liuzzo, di altri eminenti critici letterari. Il titolo della raccolta e il quadro di David riprodotto in copertina, a parere di chi scrive, sono funzionali per segnalare al lettore il tema dominante o almeno prevalente, della silloge poetica, ossia l'amore. L'amore, sentito, vissuto e cantato con lirismo, un lirismo alto, e con l'uso di un linguaggio moderno, ricercato, allusivo che affascina il lettore con l'arditezza delle sue figure retoriche assolutamente originali, luminose, persuasive. Ma di quale amore ci parla l'autrice? Come leggere le metafore? Come interpretare le similitudini? Il lettore interessato lo scoprirà addentrandosi nella lettura del libro. Un libro intessuto col filo d'oro dei più forti sentimenti, dei più intensi desideri, della più ardente passione amorosa. Un libro ove alla creatività visionaria si affianca l'entusiasmo passionale e reale, che costituisce una eccezione rispetto alle precedenti opere dell'autrice, almeno per il modo nuovo di affrontare l'argomento in questione. Un libro colmo di fervida immaginazione, ma anche di memorie reali che suscitano nel lettore stati d'animo diversi che vanno dall'ammirazione al turbamento, dalla sorpresa allo stupore. Un libro ove il lettore, addentrandosi nella lettura, avverte il battito del cuore che scandisce lo scorrere del tempo, avverte l'inquietudine dell'anima cosciente della precarietà dell'esistere e della vanità del tutto. Ma soprattutto avverte il fuoco ardente delle passioni che scaldano il sangue, avverte le fiamme delle emozioni che squarciano le tenebre del profondo e illuminano i desideri inconsci che si agitano dentro paesaggi di struggente e lirica bellezza, avverte i sussulti e l'ebbrezza, il tormento e l'estasi generati dall'amore. E al lettore attento non può sfuggire il fatto che molte delle poesie presenti nella raccolta in questione, che cantano il sentimento che non ha eguali, sono intessuti con l'invisibile filo della fantasia, del sogno, dell'immaginazione, ma soprattutto con le fibre lacerate del cuore, di un cuore che "muore in croce". Già leggendo il primo componimento il lettore incontra gli elementi costitutivi dei paesaggi metafisici su cui si libra l'anima dell'autrice. E, da subito, avverte l'ebbrezza generata da quel suo volare alto e, in pari tempo, rivive l'incanto e la vertigine dei sensi provata dall'autrice medesima. Una vertigine avvolgente come una fragranza, una vertigine intensa, emozionante, coinvolgente che solo l'amore sa generare e solo la poesia sa riprodurre: "Quale fragranza di grano e di tempo / m'avvolge, quale tempesta di sensi / in questa bocca alita di stagioni / e di maree! Nelle pupille sbianca / la parola, brucia nell'utopia / della sera. Il cielo guardo e sono in volo / fra luci ed ombre e il cuore da lontano / ridipinge smarriti arcobaleni. / Sono la primavera che si specchia / in mille laghi e canta in ogni fonte. I Fiori di mandorlo ho tra i capelli, / ma incalza l'estate in impreviste / nubi e la gioia non esclude i graffi. / s'alternano i crepuscoli e le albe, / brillano notti, s'oscurano soli: / il mio cuore risorge e muore in croce.". Ci domandavamo poc'anzi, di quale amore ci parla l'autrice. Una prima risposta arriva leggendo questi versi: "Dio, eterno e sconosciuto, nel silenzio / T'ascolto e un segno Tuo tra le mani / ricerco, mentre il cuore è giara vuota / da colmare. / Ineffabile amore a Te mi lega, che mi avvince e fonde nella Tua luce. / Anche altro amore dà senso alla vita, / ridesta i sensi, da nuovo vigore, / fa che noi vogliamo, coraggio imprime, / è fuoco e frescura, estasi e tormento, / ma vita sempre, luce nelle notti / più oscure, ...". Qui l'autrice nel manifestare l'ineffabile amore che la lega al Creatore, dichiara anche che vi è un altro amore che da senso alla vita ed è l'amore per il "solo uomo che amai, unico uomo, / hai svelato i misteri del mio sangue". Una seconda risposta ci viene data da questi altri versi: "...Si, l'amore / si rivela in essenza, ma ignoriamo / come fonda l'umano e il divino, / come si alternano estasi e tormento, / spirito e carne, in un unico atto, / nell'intrecciarsi dei corpi, in un abbraccio. /..." Dunque non solo amore mistico o spirituale, ma anche amore sensuale, passionale, terreno. Quell'amore che, come dice l'autrice, ridesta i sensi e dà nuovo vigore, quell'amore ch'è fuoco e frescura, estasi e tormento, spirito e carne. E come ogni amore vero è intriso di gioia: " il grido della gioia / che illumina / il fondo del dolore, / per eternare / e rendere immortale / l'istante fugace, / per catturare il raggio / nella dolce ferita del cuore...", ma anche di dolore. Un dolore vissuto dall'autrice come sofferenza ma anche come nutrimento dell'anima e strumento di trascendenza: " E sei anche il dolore, che alla gioia s'alterna, e mi rende / campo arato del pensiero, sole, alga, / battito d'ali, gemma nel cielo notturno / frammento d'eterno nell'universo...". E più avanti: ".. non risparmiare / alla mia carne la croce / dei miei segni, ché da essa / trae vita la parola." Il lettore rimane sconcertato quando l'autrice, attingendo al reale canta, senza infingimenti e senza velature, l'amore sensuale: "Nella mia bocca / nella morsa delle labbra / miele e latte che sgorga dalla polla del tuo amore, / incomparabile / dono dell'attesa". Versi questi che non temono il confronto con quelli bellissimi del Cantico dei cantici: "Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo e dolce è il suo frutto al mio palato". E rimane affascinato quando la nostra poetessa, dissetandosi alla coppa dei ricordi che le ridestano sopite emozioni, dispiega l'accensione dei sensi e dell'anima che anela l'amore: "M'accendo più dell'alba / nell'inverno dei tuoi pensieri / e la neve si scioglie / e il bucaneve s'innalza / ad ara del tempo / e rende sacro l'amore. / io, nuda ti appaio, nuda / con la sola veste del sole / e mi trasformo / nel fiume che scorre / nei tuoi occhi: gorghi / sono le tue pupille / e m'inabisso nei loro / profondissimi fondali: / qui ritrovo i miei prati e te, / stelo azzurro delle mie stagioni. / E, poi, stenditi / cielo sulla mia corolla, / colma di te il mio calice di stelle, / donami luce, sommergimi / del tuo oceano d'amore.". Così come lo stesso lettore sente la tristezza, lo sconforto, il lutto provati dall'autrice per l'amore negato, vilipeso, ucciso: "Addolorata / come Maria sotto la Croce, / depongo l'amore / e l'avvolgo / in un lenzuolo bianco. / Oh!, questo amore, / che reclina il capo ( e ha le braccia / abbandonate! / Lo sostengo tra le ginocchia e il petto...". Risuonano in queste poesie le pulsioni dell'interiorità e il respiro dei sensi inebriati da una forte e intensa passione, che sospingono l'autrice ad esplicitare con freschezza giovanile il suo modo di (ri)vivere l'amore, ma, nel fare ciò, la poetessa usa un linguaggio ambiguo, allusivo, indeterminato che le consente di velarlo, trasfigurarlo, spiritualizzarlo a tal punto che al lettore non resta che l'intuito per capire se dietro il tu a cui si rivolge l'autrice e dietro i fatti raccontati vi siano l'umano o il divino, la carne o lo spirito. Ambiguità, questa, che non si riscontra, invece, nelle poesie sulla poesia: "Amami, poesia / mia libertà e prigione, / nel cipresseto / della clausura, / amami sempre. / Io che di te mi nutro / e mi coloro, / il velo getto dell'ipocrisia. / Cogli le perle / sciolte fra le ciglia. / Amami come un gioco, / nella passione muta / del mio grembo, / nel passo silenzioso / della sera. / Come la capinera / apriti al pianto e spegnilo / e a me sorridi / e toglimi alle morti notti. / Piuttosto dammi / un cielo stellato, / perché in te io legga l'universo, / ma non risparmiare / alla mia carne la croce / dei miei segni, ché da essa / trae vita la parola." E ancora: " Amami con saggezza / e con follia / amami poesia, /amami sempre!..." E ancora: " ... Amami, come t'amo, poesia, ma non per dare / al cuore l'illusione / di lambire / e intuire l'eterno. / Attraversami, / piuttosto, con dolore, / sì ch'io apprezzare / possa ogni gioia / ed amare senza egoismo, / ma per donarmi / come tu ti doni." Qui, in queste poesie, tutto è terso, limpido, solare. Qui vengono esplicitati, senza alcuna chiusura ermetica, anzi con estrema chiarezza, i nobili motivi per cui la poetessa chiede alla poesia il suo amore. Qui, come in una preghiera, la Liuzzo, cosciente che la vera poesia nasce dal dolore, quel dolore che da sempre accompagna i veri poeti, chiede alla poesia di non risparmiarle la sofferenza, quella sofferenza che il cuore trasmuta in canto e senza la quale a nessuno è dato di lambire i limiti ultraterreni né di scrivere un verso che racchiuda nel suo breve spazio una scintilla di luce capace di dar senso alla vita. Abbiamo detto all'inizio che il tema prevalente della raccolta è l'amore. Ma l'amore è un sentimento che convive con gli altri sentimenti. E la Liuzzo, con la consueta profondità e maestria, ce lo mostra al fianco della nostalgia per l'anima sgombra e la mente innocente dell'infanzia amata e perduta; al fianco del rimpianto per quello che poteva essere e non è stato; al fianco della angosciosa e malinconica inquietudine ingenerata dalla caducità delle cose e dalla fugacità del tempo; accanto allo scetticismo che con accenti degni del Qoelet, fa dire all'autrice: " E' vano tutto quello / che sorge e che tramonta / su cui sprechiamo il fiato"; accanto al dolore e al lutto per le vittime della violenza, dell'arroganza, dell'indifferenza; accanto all'indignazione per l'egoismo imperante e cieco "per le ferite altrui" e sordo "ad ogni richiamo" dei più bisognosi, dei dimenticati, degli esclusi. A conclusione della lettura possiamo affermare che le liriche che compongono la silloge, tutte di grande spessore e densità, e che ricantano il vissuto attraverso uno slittamento fantastico e onirico, dimostrano ancora una volta, la maturità artistica e la grande maestria raggiunte dalla Liuzzo; e affascinano il lettore con i loro paesaggi da sogno entro cui si dispiega la tempesta dei sensi. Una tempesta generata dal vento irresistibile dell'amore che sospinge l'anima - un'anima sensibile, travagliata e accesa dalle fiamme della passione e dal fuoco delle emozioni - fra gli spazi variegati dell'esistenza ove si incontrano, s'intrecciano e si separano l'umano e il divino, la carne e lo spirito, il tormento e l'estasi.
Vito Sorrenti
Vito Sorrenti
* |
NICOLA CHIARELLI - U CASTELLU - Poesie in dialetto pietrapaolese - Grafosud Rossano Scalo (CS) 2006 - pp. 96, euro 12,00 |
La prima lirica della silloge in dialetto pietrapaolese, che informa l'opera prima di Nicola Chiarelli intitolata U Castellu, edita dalla Grafosud di Rossano Scalo ( CS) con una bella è illuminante presentazione di Luciano Crescente e una sintetica ma efficace prefazione dell'autore, impreziosita da numerosi disegni dell'artista Gaetano De Simone, detto Talimy, che raffigurano scene di vita quotidiana della comunità, e da un piccolo ma utile glossario, si apre con questi versi: "Mi ne sugnu iuto / ccù quattru nzone ntra na valicicchja /e ccù nu bagullu chjinu e ricordi. / Che scàrminu er a terra mia, / chi m'è rimastu ntru core!" (Omminu e Petrapavula). ( Me ne sono andato / con quattro panni dentro una valigetta / e con un baule di ricordi. / Che scàrminu della terra mia / che mi è rimasto dentro il cuore!), dove la parola scàrminu va intesa come un insieme di nostalgia struggente, dolore, rimpianto, malinconia. Perché questo scàrminu? A che cosa è dovuto? Leggiamo i versi che seguono: "... E' forse vivo un bocciolo di rosa / che dopo avergli reciso le radici / lo conservate nell'acqua del vaso? / Vive per qualche giorno / continuando a morire lentamente: / e che strazio quella sua vita! "*. Ecco, lo stesso strazio del fiore reciso e posto nell'acqua del vaso, deve averlo provato il nostro poeta nel momento in cui, lasciati gli affetti più cari, la casa, il paese, si ritrova in terra straniera nella penosa e dolente posizione dell'emigrante. Solo che a differenza del bocciolo reciso, destinato inevitabilmente ad appassire dopo una lunga agonia, il nostro poeta riesce ad affondare le sue pur lacerate radici nella nuova realtà. Ma le lacerazioni, le ferite dello strappo non si rimarginano mai del tutto e di conseguenza continuano a provocare dolore nel cuore del poeta. E questo dolore, figlio del rimpianto e della malinconia, irrora il cordone ombelicale con il paese natio e costituisce la spinta propulsiva per il ritorno puntuale nella terra d'origine. Non importa che il ritorno avvenga con il treno o l'aereo, per le vacanze estive o natalizie, o sia una rivisitazione delle memorie, la spinta per questo ritorno è sempre la stessa, ossia ha sempre la stessa causa: lu scàrminu. Ed è questo scàrminu, insieme al baule di ricordi, la fonte d'ispirazione di tutte le composizione che danno corpo alla raccolta. Nicola Chiarelli, emigrante-poeta, sa, perché l'ha provato più volte sulla propria pelle, del travaglio che precede la partenza, sa di quell'ultimo sguardo intorno prima di andare via, in silenzio, senza proferire parole, perché paralizzati da una commozione infinita, sa della struggente nostalgia che avvolge l'anima e offusca la mente e di quel nodo in gola che blocca il respiro, sa del petto contratto, dove batte un cuore in tumulto, sa degli occhi, non più ridenti, ove brillano gocce tremolanti dalle umide ciglia trattenute a stento e sa del vuoto immenso che gonfia il rimpianto per quel mondo passato, che costituisce la radice portante della nostra vita, la quale, a intervalli regolari, riaffiora alla memoria con le sue immagini nitide o sbiadite: reminiscenze di giorni lieti o infelici. E l'emigrante-poeta ama le sue radici, ama il suo mondo interiore, ama le sue memorie, perché è cosciente che, incessantemente nel mondo, ogni luogo muore, ad ogni istante, e resta vivo soltanto nella nostra mente. L'emigrante-poeta sa che i vivi, simili ai morti, più non esistono per quel luogo lasciato, sa che si resta vivi solo nella memoria di chi ci ama, come un figlio partito nella memoria di chi l'ha generato. E l'emigrante-poeta sa che per perpetuare la memoria della terra natia, dei luoghi e delle persone a lui care, per farli rivivere, per darne testimonianza alle generazioni future, per far sì che tutto quel mondo, ormai irrimediabilmente perduto, non scompaia del tutto sotto la coltre del tempo, deve fissarli alla maniera di Orazio, ossia nella nobile e imperitura materia che è la poesia. Ed è quello che fa Nicola Chiarelli: pubblica una raccolta di "poesie composte nell'ultimo decennio, scaturite da una cinquantennale e "sofferta" lontananza da Pietrapaola e da un amore viscerale verso la terra, dove ho avuto la fortuna di essere nato...", per "rievocare realtà, condizioni, usanze e personaggi di una volta" e per "apportare un modesto contributo alla salvaguardia e valorizzazione del dialetto e quindi della cultura pietrapaolese" ( dalla prefazione a cura dell'autore). E per fare ciò attinge a quel "Bagullo di ricordi"' che egli conserva intatti nella sua memoria, e li trasforma in poesie. E in queste poesie "Petrapavola antica" si rianima e rivive. E rivivono nomi e soprannomi, persone e personaggi ripresi nel loro caratteristico abbigliamento fatto di "calandrelle e cavuzi e fustagna, majje e cuzetti fatti e lana e giachette arripezzate". E Si rianimano le strade e le contrade, i vicoli e la piazza; e riecheggiano le voci dei "guanjunelli" che giocano "alla mazza e alle stacce" a "Dema", a "Garrubba", "allu Spinaru", o mentre scendono "ppe lu Cucinaru" per andare "alla scola"; e in questo andirivieni di umanità vedi "Rosariu scupare alla portella" e "Vittorio sonare le campane" e Don "alonzu prericare" e "scarpari, gualani, zappaturi e pecurari" alle prese con le quotidiane e ripetitive fatiche; e vedi: "lu forgiaru ferrare ciucci e carusare muli"; e Mastru Rafele, /chi nzapune a varba e mastru Filippu chi conze le scarpe, u Lupu chi vinne pasta e verichina, Cicchellu chi vinne frospiri e trinciatu, Zi Ottaviu chi mine lu chjanozul' e la serra ntra putiga; e vedi: Don Pulippo mis 'allu barcunu, chi fume e jette sputazzate, mentre ccù lu bastunu arrive Cucurunu, facennu barzellette ccù risate. E vedi stagliarsi nell'azzurro solare la Rupe Castello, luogo-simbolo di Pietrapaola, che sovrasta il paese e dove: "... i primi cristiani, / ccù pichi notte e jurnu hanu scavatu, / nzeme ccù crape, pecuri e ccù cani / rifuggiu sutt'a Timpa hanu truvatu ..."; e dove , nei versi che precedono, l'autore dice che andrebbe ad abitare pur di tornare al paese: " ...ar abitare eju me ne jisse, / ntre rutte sutt'a Timpa er u Castello..." all'ombra del quale prima pullulava la vita mentre ora "Un c'è rimastu mancu nu porcellu, / ntra chilli rutte tutte sbalancate", ma ciononostante "/ iju è restatu fermo a n'aspettare,/ oje o domani nui ni ricojjimu, / a pere, ccù le macchine o ntre bare, / luntani er u Castellu u'n ci stapimu" ( U Castellu ). E nonostante siano già passati quasi sessant'anni i ricordi fluiscono intatti e riportano alla mente a purvarata che sollevavano la Balilla di Passavanti e il carrozzino di Sarracinu, previtu anzianu, e poi i zingari e Cassanu che conzavuno fressure e cassarole e i forestieri: "Cuù D.D.T. venijin i foresteri, / dissinfettenu vie, stalle e case, / termomitri, pompette ccù cristeri, / e musche a munzelli a chille rase." (Ricordi e petrapavula); e sebbene la vita allora era grama ccù tuttu ciò ccù oje u'n ci cangiasse. Poi il poeta volgendo lo sguardo agli affetti familiari dapprima ricorda la casa paterna e vedi: ".... Vrascia, tizzuni e na bella pignata, / chjina e suraca e misa mper'u focu, / vullennu quasi na mena fumata, / si rissicava l'acqua a poc'a pocu..." (Allu focularu); poi ricorda la drammatica morte del bisnonno "Ciarcellu": "Ere arrivatu quasi alla curina, / mancu na pertica avije jettatu, / quand'a na vota s'è spallata a cima, / e capusutta nterra è perrupatu."; e le tragiche conseguenze del nefasto evento: "Si minter a grirare e a si rascare, / arranghinu i gualani e ntri cugnali / chi nente ppè Ciarcellu ponu fare, / lasse mujjera, fijji er animali." ("Ciarcellu"); e a seguire ricorda il nonno "Nicol'e Ciarcellu" che "Senza chi alla scola fosse statu / allu pajise "a scenza" era chiamatu" e che: "Nu jurnu ccù lu ciucciu ere jutu, / a Napuli e de là s'ere mbarcatu, / e fin'a Novajorca ere sbattutu, / a Brucchilinu ave fati-gatu." (Zu Nicole e Ciarcellu). Dopo gli affetti familiari il poeta racconta la fatica del simminare, spistare, metire, pisare, ammassare, mpurnare prima di avere a tavola n'u stozz' e pane!, mentre oje, e chist' u' nè na fisseria ,/ s'u jetti, u'lu vo' mancu cchjù nu cane" (U pane); e quella che occorreva per portare a tavola nu bicchericchju e vinu. Meno male che c'era u ciuccio a dare una mano al contadino. E a questo animale mansueto, paziente e fatigaturi il poeta dedica un'ode di 17 quartine, dicendolo meritevole di un monumentu! Altrettante quartine il nostro dedica allu porcellu del quale narra l'avventura, dal momento dell'acquisto fino a quando finisce squartatu. E in queste poesie è rilevabile il dolore del poeta per l'amaro "destino" di questi animali. Un ritratto assai colorito e spassoso il nostro lo fa al banditore del paese: "Jat'a alla jjazza, ca ci su li pisci, / venuti antura frischi er a marina, / sardella, vope savuri er alice, / ppèfrijir' e salare, cosa fina"; ma Rosariu non jettave sule u bannu, facije puru lu spazzinu, scavave e fosse ntru cammisantu, jije fore ar Arcusinu e u vernu appicciave lu vrasceru ntru Munnicipiu e come se non bastase er obbrigat' ar acchjappar ' i cani! (Ognunu chi sente lu bannu!). Si può rilevare da quanto detto sopra e soprattutto dalla lettura completa della silloge che il nostro poeta, appassionato cultore di studi antropologici e dialettali che riguardano il suo paese natale, affronta con maestria tec-nica e con scioltezza, semplicità e padronanza del dialetto tutti i temi della vita rurale, mettendo in rilievo, e contrapponendoli a quelli del presente, tutti gli aspetti più caratteristici dei luoghi, delle persone, dei "personaggi" e delle condizioni di vita riscontrabili all'epoca della sua infanzia. E in questo raffronto l'idillio lascia il posto alle amare constatazioni: dove prima la piazza era piena di vita, ora u' viri mancu cchjù nu cane; e chjuse su le case, e stalle e i furni, e dove le vie erano risonanti di voci, di schiamazzi, di suoni, ora sulu a mortorio sonin' e campane; e ancora: "Duve na vota c'ere lu canale / u'n ci canusci cchjù, ca c'è la strata / u' scontri a pede mancu n'animale / sparitu e l'ortu e l'acqua è ncanalata "((E capa-jirtu e de penninu); e il cambiamento-degrado non risparmia nemmeno il mare: "a spiaggia è lorda e l'a-qua u'né cchjù chiara / mparte e star allu mmattu ammunzellati /è meju si ti lavi ntra corara." (Allu mari). Ma non solo, anche la qualità delle persone sono cambiate, allora: "A mamma mia e nove misi prena / ha cotu l'uva u jurnu che fijjiata, / e quannu se ricota a mala pena / a sira stessa ha fattu a Nunziata" ... "invece mu li carinu l'anelli / su bone a sulamente a si pittare" (U vinu); ed è cambiata la qualità dei cibi: "ccù chilli olive tannu ti scialave, / na cucchja e pipifritti e luvingiane / oji, chillu lardu comu addurave, / e chi sapuru ave nu call'e pane" (A vertula a truscia e la gummula); e persino l'arredamento è cambiato: non si trovano più le vecchie credenze, che conservavano intatto l'aroma delle pietanze, non si trovano più neanche quelli che per secoli sono stati i contenitori più in uso: "lungelle, gummulille, terzoluri, pisarre, varrili. Per fortuna il progresso porta anche vantaggi e fra questi gli acquedotti, le fognature, ecc. che hanno permesso di eliminare i problemi igienici e certi disagi del tipo: "... E quannu nu bisognu ave e fare / un c'era nullu cessu, ccù rispettu / si tu e notte tannu ave e pisciare / t'avije e calare sempre suttu u lettu. / Quannu subb 'i mattuni u strisciave, / facce nu strusciu bruttu, arrassosìa, / na murra e filfi pie e si dispiave / e ti passava probbiu ogni gulia..." (u pisciaturi). Conclude la raccolta la composizione intitolata "I subbranumi" , 23 quartine che danno vita ad un gustosissimo elenco di oltre 150 soprannomi, ognuno dei quali caratterizza ed individua un ceppo familiare della comunità, dalle quali si può rilevare la freschezza, l'originalità, la profondità e la coloritura di cui il dialetto è capace. A lettura ultimata ci viene in mente un verso di G. D'Annunzio tratto dalla lirica "ottobrata": "Io guardo la scena e dipingo". Ecco la stessa cosa, a nostro parere, la potrebbe dire il nostro poeta. In conclusione possiamo dire che Nicola Chiarelli con la sua opera prima intrisa di vivo amore per la terra natia, per la natura, per gli affetti familiare e dalla quale traspare il suo turbamento per il tempo che scorre senza requie e trasforma tutto, e il suo rimpianto per un mondo che non c'è più, raggiunge pienamente gli obiettivi che si era prefissati ossia rievocare realtà, condizioni, usanze e personaggi di una volta e apportare il suo contributo alla salvaguardia e valorizzazione del dialetto e quindi della cultura pietrapaolese.
Vito Sorrenti
Vito Sorrenti