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Testo critico di Rodolfo Tommasi
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Dove la parola è irradiata da un nucleo d'allarme, dove l'allarme della parola prima lambisce e poi chiude in sé, quasi nella stretta di un pugno, con viscerale scatto decisionale tutta l'essenza comunicativa dell'immagine, là risiede, nel suo acceso e vibrante enunciato, la poesia di Vito Sorrenti. Ma la visceralità, l'impeto inevitabile e schietto, la vena dolente, a tratti la lieve intonazione di un disincanto, non vengono a sottrarsi al costantemente sorvegliato dosaggio terminologico. Sorrenti è poeta della ricerca e della comunicazione diretta, degli ampi spazi evocativi e delle dettagliate singolarità del sentimento, della memoria intesa come guida all'autoanalisi e della realtà come filtro della memoria nella sua incombenza, è poeta del soprassalto iconico e della misura lessicale: ben consapevole del postulato per cui la poesia deve fondarsi soprattutto sul rigore espressivo, non si concede traslati smarginanti, e accoglie nella propria e profonda esperienza umana la forza emozionale suggerita dall'esperienza dolorosa dell'intera umanità. Largamente apprezzato dalla critica, vincitore di numerosi quanto Importanti premi letterari (cito per tutti il recente — '08 — premio 'Città di Leonforte'), Sorrenti ha una vasta produzione distribuita tra raccolte collettanee, periodici (tra cui "alla bottega" e "Le Muse") e pubblicazioni di sempre significative sillogi: Gocce d'amore ('94), Vagando con la mente ('02), Poesie ('08), Amebeo per Euridice ('09), La poesia è una ladra ('10), uscita con il marchio editoriale del Centro Studi Tindari Patti. (RT)
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Giudizio critico di Rodolfo Tommasi
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Vito Sorrenti è un poeta, in questo senso, persino eticamente chiarificatore. In consonanza con quella necessità vitale che impone alla parola di recuperare il vero accento di un linguaggio collocabile, ad alti livelli di pressione lirica, nel bisticcio dialettico tra terra e cielo, tra raziocinio e autofferta all'assolutezza della percezione, a costo di lasciarsi lacerare da esperienze disumanizzanti circa il rapporto umanità/poesia (altrimenti, dove finirebbero le lezione di Benn, di Artaud, di Bernhard?), Sorrenti fa filtrare drammatici fulgori dalle incrinature esistenziali che crettano la superficie dell'essere (da Al poeta):
Se la parola non è dura
come pietra di diamante
se non fa sponda allo schianto
e al fievole lamento
se non schianta gli steccati
e non frantuma i vetri oscuri
(...) allora non cantare, o Poeta
non dare fiato a parole
senza vita: un voluto
silenzio è più eloquente
delle vacue parole
messe in fila
come vuoti bicchieri.
In questi versi, è vero, risuona la fede nella poesia. Quel che valica, però, la frontiera dell'enunciazione teorica - e infonde alla pagina un interesse inedito - è il non credere al poeta come figura in sé: si nega, in pratica, la sua figura come presupposto all'esistenza della poesia (ne è, semmai, il tramite, l'esecutore, lo scriba); e si fa, quindi, della poesia (e qui risiede un contatto tra la Ciampi e Sorrenti) un'entità che prescinde l'apporto umano, dal quale potrebbe, anzi, venire annullata, o vanificata nella presenza e nella funzione. A questa ipotesi, la Ciampi risponde recuperando gli archetipi e restituendo loro una sorta di ipnotica innocenza; Sorrenti solleva il monito di allarme e trasforma il dettato in un inesausto manifesto etico permeato di sconforto e di acuto lirismo, anche civile (rimando alla silloge Vagando con la mente).
[...]Storico di nuova impronta, a Vito Sorrenti, storico, a sua volta, in forme di poesia che spingono il verso (e la composizione grafica della pagina) a comporsi come una partitura musicale (non per niente intitola i suoi brevi poemetti Corali, prevedendoli ad almeno due voci, glorificanti, litaniche, elegiache). Sorrenti apre sicuramente nuove strade alla poesia, in particolare a una poesia civile valida, inconsueta, antiretorica.
Se la parola non è dura
come pietra di diamante
se non fa sponda allo schianto
e al fievole lamento
se non schianta gli steccati
e non frantuma i vetri oscuri
(...) allora non cantare, o Poeta
non dare fiato a parole
senza vita: un voluto
silenzio è più eloquente
delle vacue parole
messe in fila
come vuoti bicchieri.
In questi versi, è vero, risuona la fede nella poesia. Quel che valica, però, la frontiera dell'enunciazione teorica - e infonde alla pagina un interesse inedito - è il non credere al poeta come figura in sé: si nega, in pratica, la sua figura come presupposto all'esistenza della poesia (ne è, semmai, il tramite, l'esecutore, lo scriba); e si fa, quindi, della poesia (e qui risiede un contatto tra la Ciampi e Sorrenti) un'entità che prescinde l'apporto umano, dal quale potrebbe, anzi, venire annullata, o vanificata nella presenza e nella funzione. A questa ipotesi, la Ciampi risponde recuperando gli archetipi e restituendo loro una sorta di ipnotica innocenza; Sorrenti solleva il monito di allarme e trasforma il dettato in un inesausto manifesto etico permeato di sconforto e di acuto lirismo, anche civile (rimando alla silloge Vagando con la mente).
[...]Storico di nuova impronta, a Vito Sorrenti, storico, a sua volta, in forme di poesia che spingono il verso (e la composizione grafica della pagina) a comporsi come una partitura musicale (non per niente intitola i suoi brevi poemetti Corali, prevedendoli ad almeno due voci, glorificanti, litaniche, elegiache). Sorrenti apre sicuramente nuove strade alla poesia, in particolare a una poesia civile valida, inconsueta, antiretorica.
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Intervento di Enzo Concardi
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Nella raccolta poetica Gocce d'amore (1994) Vito Sorrenti non ha ancora coniugato il pessimismo antropologico della raccolta successiva Vagando con la mente del 2002. Nel primo libro egli è soprattutto il poeta dei contrasti, un cantore delle contraddizioni umane, uno spirito capace di cogliere il contingente positivo dell'esperienza quotidiana. Si sofferma sulle attese trepide dello stato amoroso; attende l'amata nella sua stanza, ne invoca la presenza, esprime il bisogno di incontrare i suoi occhi e di ascoltare la sua voce (L'attesa). Scioglie un canto alla speranza, quella dimensione misteriosa proiettata verso il futuro che, nonostante sia "una fiammella sottile e lontana", gioca su di lui un fascino segreto: "mi attrae e mi chiama" (La speranza). Rievoca l'età adolescenziale, il mondo contadino, dipingendo liricamente la natura, il paesaggio, la campagna (Immagini). Filosofeggia in versi sul destino, che non consiste nell' arrabattarsi freneticamente, ma che si realizza più semplicemente in un "carpe diem" oraziano, "perché il segreto della vita felice / sta nel viverla alla giornata" (Conflittualità). D'altro canto, il poeta inizia a farsi testimone dei mali del nostro tempo. Qui - già con toni accorati e intensi - denuncia la condizione umana alienata della grande metropoli moderna ("O sterminata periferia / infinita gabbia di cemento"), condanna i "venditori di morte" che trascinano nell'abisso degli stupefacenti le nuove generazioni, addolorando madri inermi e richiama al risveglio delle coscienze (Per quanto tempo ancora). Inoltre già appaiono i primi segni della sua poetica dominante, quella del dolore; un dolore cosmico e universale, fisico e morale, psicologico e storico, che s'incarna sempre e comunque in situazioni e persone concrete: la solitudine di un vecchio allettato o l'isolamento di un giovane handicappato (Il pianto della solitudine). La consapevolezza del dramma della sofferenza è estremamente acuta: "Scorgo l'abisso orrendo / ove stiamo per precipitare" (E dovrei anche ridere). Il passaggio alla poesia di denuncia della civiltà contemporanea -intrisa di sdegno morale, patos, partecipazione solidale alle sciagure altrui, inflessibilità etica - è sancito da Vagando con la mente (2002), dove il poeta si misura con le tragedie storiche dell'umanità svelandone l'irrazionalità e responsabilità degli uomini: non il fato o il destino o un dio vendicativo sono causa del dolore, ma sfruttamento dei potenti verso i deboli. Un corretto approccio al testo ci viene dato nella prefazione da Neuro Bonifazi: "Il poeta Vito Sorrenti ci dimostra... in questa sua raccolta di proclamata delusione e sofferta ira, che anche nella nostra epoca, segnata da un generalizzato disimpegno morale e dalla comune indifferenza, la vera e appassionata poesia può trovare la voce giusta e l'efficace cadenza della parola, per essere ascoltata." Il canto di Sorrenti si dispiega attraverso versi cadenzati e reiterati, utilizzando tautologie rafforzative e componimenti lunghi nella forma di brevi poemetti o inni solenni. Le visioni contenute assumono spesso toni apocalittici e richiamano culturalmente le grida di dolore di tanti poeti contemporanei che prima di lui si sono imbattuti nelle atrocità delle guerre (Il Quasimodo di Uomo del mio tempo o Alfonso Gatto della Storia delle vittime). L'autore dimostra come l'uomo non abbia imparato nulla dalla lezione della storia e come continui a condannarsi al male. In questo genere di poesia avviene un processo di osmosi tra l'interiorità del poeta e gli eventi esterni che si ripercuotono e si dilatano a dismisura nella coscienza sensibile, generando un tipo di linguaggio martellante che assume talvolta toni profetici e alta tensione ideale e spirituale. Questa è la storia di un'anima che s'interroga in modo lancinante sul "perché" e scopre che non si può essere felici fino a quando un solo uomo soffre sulla terra, come nel pensiero e nell'insegnamento gandhiano.
Enzo Concardi