Versi avversi e diversi
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Introduzione
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“Il Culturale: tra impegno sociale e ricerca letteraria”.
Mi sono occupata altre volte di Vito Sorrenti, della sua poesia “ampiamente culturale”, fatta d’impegno sociale e aulicità, soprattutto del suo “stile” che “non vizia il lettore” (seguendo Sanguineti) con “l’asemanticità dell’intossicato” (Pasolini) come nella neoavanguardia, ma con la semplicità di uno stile che nasconde una “complessità dell’idea”. Questa “semplicità” apre alla “comprensione”, la poesia si rivolge alle “masse”, al popolo, non è una poesia elitaria, per facoltosi, anche se sostiene un’idea complessa. È quindi una lirica che a differenza dell’arte concettuale, di cui approva l’assunto, “l’idea superiore al risultato estetico” (come nella “fontana“ di Duchamp) crea una sorte di “armonia segreta”, di “corrispondenza” tra “semplicità e complessità”, tra “idea e forma”. L’aggettivo, come l’immagine, per Sorrenti, non è mai “ornamento”, ma “precisione del linguaggio poetico”, “incremento conoscitivo”, “la semplicità di una forma complessa”, il “pathos” viene superato, come “l’incantevole caos dei sensi”, con una “letterarietà rievocativa”, con l’indice culturale del topòs: è l’arresto dell’ineluttabile svanire di tutte le cose nella “durezza” di una cultura come trasmissione di valori. La “visione sconnessa delle cose” non interessa al Sorrenti: poiché è una visione “epigonica” ancora legata ad atteggiamenti camuffati di “neosperimentalismo” ma in realtà vecchi e ammuffiti. La novità è congiunta con il suo fine: il trasmettere. Il “principium unicum” che sovrasta le cose e le rende interagenti con il loro valore intellettuale. Sorrenti ha coscienza del “caos esistenziale”; ma cerca di dominare quel caos con l’impegno verso una letteratura che promuova, o sia in grado, ancora di promuovere valori in cui credere. È la “passione” verso i poveri, verso gli ultimi della fila, verso quei “Derelitti” che la società ha negato (o verso le “vittime della guerra” che proprio in questa silloge trovano “ampio spazio”) che ritrova “voce”, “forza” nella sua scrittura, all’interno di una “poesia che si fa cultura”, “espressione intellettuale d’impegno sociale”. Il dolore e il pathos hanno un fine gnoseologico: non sono fatti privati, ma problemi che interessano l’intera comunità umana.6Sono, quindi, versi “avversi” a un certo “solipsismo di maniera” di oggi che approda a un “soggettivismo esasperato” ormai incapace di dire più qualcosa, e “diversi” da quella poetica oggettiva e minimale, rivolta “agli intenditori”. Nel “Trittico delle anime divelte” (in memoria di Aylan Kurdi) il frammento apre ad analogie che colgono quella “spazialità letteraria riflessa” come “ponte” tra la “testimonianza di un dolore corale” e la ricerca di un senso letterario inesausto e molteplice (“Mi devasta/l’urlo della morte/che aleggia sulle acque” “Umani relitti/disseminati sulle acque/come foglie secche” “Agghiaccio/ e si raggela il sangue/nei sanguigni anfratti” ecc.). I trittici, espressioni di questo “senso corale” aprono le porte alla nuova poesia culturale, fatta di “richiami e impegno” di frammento e analogie, di semplicità e complessità, di semanticità e metafisica, di espressionismo e realismo, e sono il passo più rivoluzionario di una poetica che vuole “rinnovare serbando”. Una silloge che si fa anche “preghiera” nell’invocare, con semplicità di stile, l’aiuto divino e che trova nella trascendenza l’impegno più significativo del suo esistere. |