La poesia è una ladra
⚛ |
Presentazione di Edvige Galbo |
Vito Sorrenti denuncia, in canto, il furto perpetrato a sue spese da una ladra deliziosamente insidiosa, la Poesia, che, senza lasciargli scampo, si è appropriata del suo tempo come delle sue "durate interiori" invadendoli. La poesia di Sorrenti non prescinde dalla Storia e muove dagli stessi principi: i contenuti delle liriche tradiscono un forte legame con gli accadimenti della cronaca odierna e i versi prestano luce alle realtà di grande dolore, ormai opacizzate dagli schermi televisivi. Le vittime del lavoro e l'avvento delle nuove Medee ("Trittico delle morti bianche", "La neve e lo scempio") sono al centro della riflessione del Poeta che le incastra sapientemente in Espressione, nondimeno, "La poesia è una ladra" è, altresì, un racconto di vita, il diario di un uomo che crede e cerca nei versi lirici un riparo dalle banalità e dagli ideali svenduti di una società in cui il baudrillardiano "tutto che si vede" cancella il senso. In "Threnos" il poeta dà voce al "mistero della polvere" e, a partire dalla "notte fonda" e dal "silenzio infinito", leva il commovente lamento delle ombre che non più si rallegrano e non più si allietano, triste "misura della miseria morale della società del duemila", anime ingiustamente schiantate al suolo dai rostri che "lacerano il petto" ("Preghiera dei lavoratori precari"). Sorrenti invoca il Padre di tutti che è nei cieli affinché possa sempre essere ricordato il sacrificio degli uomini buoni e, attraverso il medium artistico, tratteggia, in negativo, lo squallore e la cupidigia umani, contrastando la difficoltà di riconoscersi come creatura, senza mai perdere la fede nella Volontà Divina che non è identificabile con quella umana e sempre ritorna a trascenderla. Il Poeta intrattiene un rapporto intenso con la Morte, come evento che informa prepotentemente il vivere ad essa precedente: la rappresentazione costante del "memento mori" è l'unica possibile' resurrezione degli ideali di giustizia e bontà, poiché la possibilità che nulla, invero, sia più possibile (come da noto motivo heideggeriano) trasforma il presente in un istante pieno e gravido di Senso di contro al referente "morte" che, invece, si presenta come un'"alterità inanticipabile". "Ma la morte... / La morte non sarà sconfitta / ché solo la morte / rende possibile la vita / in questo abisso di ferocia" ("Verranno altri"). Così Sorrenti ne "Il tempo" esorta l'interlocutore a godere dei frutti di un lavoro onesto, mettendo da parte lo specchietto per gli stolti, e cioè "la corsa al profitto", come accade pure in "Del tempo scosceso", in cui invita a "coltivare saggezza", scansando inutili inseguimenti, in cui il soggetto e la fortuna economica, propinata da "imbonitori incalliti", rimangono perennemente scissi in una rincorsa senza fine. Pur sposando aneliti e tensioni verticali ( e l'affiato lirico ne è, di volta in volta, testimone) Sorrenti rinuncia ad una ricerca sterile dell'"altro e dell'oltre", rintracciando il proprio ubi consistam nel reale, nell'attraversamento di dolori profondi ed immagini drammatiche che pure, come da Leit motiv sofocleo, portano alla conoscenza e, dunque, a patto che si accetti che la conoscenza sia misura di humanitas, alla felicità.
Ne "Il fuoco della vita" una pioggia che confonde, distrugge e rimette tutto quanto in discussione precipita anche sugli ideali che nel passato costituivano il Beruf a cui improntare ogni gesto della propria esistenza, eppure non lascia scivolare via la forza di accettarsi all'interno di un sistema di contingenze, seppure dolorose, e mantiene nel presente la vivacità del vecchio credo di vita ("Piove su di noi / sulle nostre chimere / sui nostri pensieri amari / sul nostro crudo dolore / sugli ideali che ieri inseguivi / e che oggi, perseguo, o cuore"). Vito Sorrenti è figlio della Bellezza classica e la Bellezza classica vive in lui, lo libera dalle mode del momento e gli permette di intonare, in "Brilla come stella", un canto ad un contemporaneo "Erotion", con la stessa grazia e con la stessa delicatezza di chi scrisse un epicedio che la terra pesante mai potrà seppellire e che i posteri continueranno a leggere con lo stesso incanto; così, in "Invocazione alle Muse", il poeta indulge al piacere di stendere un canto nuziale, pratica di cui ormai si conserva soltanto memoria, e di renderlo armonicamente presente al presente stesso. L'autore è anche poeta degli affetti e ne "I tuoi occhi" ce ne fornisce un mirabile esempio: un amore paradigmatico sfida le "ombre" che lo scorrere dei giorni deposita nello sguardo della donna amata che rimane l'unica forma di governo per un uomo libero.
Le foto ricordano un passato diverso nelle forme e nei modi di espressione, tuttavia, l'amore, come gomitolo, si accresce rotolando fra stagioni, mesi, giorni ed ore, indifferente al panta rei e il vecchio "Ti amo" si accompagna sempre, e per sempre si accompagnerà, all'ancora" (i vecchi amanti "scendono a patti con la terra ma è la stessa dolce guerra"). Vorrei concludere esprimendo i sentimenti di stima profonda che mi legano a Vito Sorrenti e l'ammirazione che nutro da anni per il suo talento poetico, nonché per l'integrità morale della sua persona, permettendomi di insistere, da ultimo, sulla dolcezza e sulla tenerezza che contraddistinguono "questo saltimbanco dell'anima mia", nonostante spesso i contenuti delle sue liriche esprimano un impegno politico nei confronti di una società che non è affatto retta e non lascino trapelare questo dato di finezza interiore. "In lasciate che i bimbi", il poeta invita al rispetto dell'infanzia, dei suoi spazi di gioia infantile e dell'interesse perduto per le piccole cose che scatenano i moti di felicità dei più piccini, e mi si permetta di osservare che la meraviglia dell'infante di fronte all'"acqua che stilla / dalla roccia / per la faccia del pagliaccio / che finge stupore / per il sospiro dei fiori / e la fiamma del focolare / per la tela del ragno / e il volo dei cigni" è la meraviglia di Vito Sorrenti stesso, anima pura ed intatta che cerca di salvare il mondo con la bellezza dei versi.
Dott.ssa Edvige Galbo
Dott.ssa Edvige Galbo
⚛ |
Recensione di Susanna Pelizza |
LE MUSE
|
Una delle voci poetiche più interessanti del panorama attuale, è decisamente quella di Vito Sorrenti. Autore nato a Polia (VV) e residente a Sesto San Giovanni, con le sue opere ( Gocce d'amore (1994), Vagando con la mente (2002), Poesie (2008), Amebeo per Euridice 2009) ci regala un quadro decisa-mente interessante sull'essenza della stessa poesia, pronta a sfondare i muri del silenzio e dell'indifferenza per venire fuori nella perfezione allegorica delle parole. Con questa sua ultima fatica "La poesia è una ladra" (Tindari-Patti) si avverte l'esperienza del dolore nell'espressività del tratto e nello stesso tempo si sente al di là di questo, la volontà di rivincita, nel rivendicare il diritto di testimoniare. La stessa dottoressa Edvige Galbo nell'introduzione afferma che "la poesia di Sorrenti non prescinde dalla storia e muove dagli stessi principi: i contenuti delle liriche tradiscono un forte legame con gli accadi-menti della cronaca odierna e i versi presta-no luce alla realtà di grande dolore, ormai opacizzate dagli schermi televisivi" (pag.7 op.cit.) e io aggiungerei a questa opacizzazione anche l'aspetto più inquietante di una controcultura che tende ad "evaporizzare" i contenuti, ad addolcire, sulla linea di una leggerezza che svuota. In Vito Sorrenti non c'è tutto questo. Le parole sono ricettacoli dolorosi di un'esperienza vitale comunque vissuta fino in fondo. Lontana da qualsiasi forma di ascesi la paro-la non si perde nell'allegoria come in "Sono dolente" (pag .18 op. cit.) dove nell'intertestualità appare la presenza del dolore Montaliano ( del "Meriggiare da Ossi di Seppia) e l'incisiva espressività dell'Urlo Quasimodiano "E' come se una morsa/ mi serrasse la gola./ E' come se sentissi le grida/ dell'aria inquinata/ delle rose languenti/ delle sorgenti estinte.(...) E' come se i rin-tocchi del lutto/ risuonassero nella mia mente/il lamento straziante/ di strazianti creature." L'anafora fa spaziare quel dolore rendendolo universale, i dettagli sono ingigantiti, da quel continuo evocare, da un'evocazione che non smette. La poesia, quindi, ha il dovere di testimoniare, con la "pesantezza" dei suoi mezzi la visione di una realtà, spronando l'uomo alla conoscenza degli eventi, nel segno catartico di una sofferenza che ha in se la forma catartica della comunione, dell'impegno colletti-vo a cambiare. Al di fuori delle bombe mediatiche di una poetica surreale, che fa propri gli jingle lessicali, il lampo, come fuoco d'artificio di acutezze, urli, sentenze appena lievitate, dove tutto gira al contrario, la poesia, per Vito Sorrenti, è una"ladra", anche perché ruba quel fuoco (in senso Rimbaudiano) necessario per "invocare alle Muse" la mate-ria di cui si compone. E diremo che ciò non è epigonismo lirico (come buona parte della nostra attuale ricerca letteraria vuole farci intendere, e qui è doveroso il riferimento a quella tendenza verso la prosa esposta nel n.30 dell'illuminista di W. Pedullà, che esclude l'epigonismo lirico, classificato da Sanguineti come "poetese") bensì consapevolezza che la poesia non può prescindere da quel senso "universale" e "generale" nel quale è nata e dal quale discende, pena, se non, il suo annullamento. Oltre il Leit motiv Sofocleo evidenziato dalla dott.ssa Edvige Galbo (pag. 9 op.cit.) si notano anche richiami ad Epicuro in "Molte sono le cose belle" (dedicata a Albino Pelizza) dove il valore dell'amicizia è dato anche dall'attimo, dal "vivere la vita intensamente" in "momenti d'oro d'ipoteti-che primavere"(pag .36 op.cit.) nel bruciare " in liquido fuoco /gli affanni della vita /gli inganni atroci" "E' dunque saggezza / non serbare troppo il vino d'Esperia" (idem), mentre bellissima è "Amore di te m'attrista" (pag.37 op.cit.) dove è evidente, anche per l' apocope iniziale, il richiamo al Dolce stil novo, nella sonorità della rima baciata, nel gioco fonico degli asticci ritmati (come dei giorni favolosi / del perduto paradiso). In "Sospiro dei giunchi" (l'ultima poesia a pag.71) il polisindeto allarga la visione del ricordo attraverso tratti che legano "briciole di pane / e infiorescenze di spine" in frammenti pittorici atti a definire un' immagine stilizzata che si apre a ventaglio in un mondo di significazioni viventi al di là della fissità e della ieraticità assorta di certe metafore Faville di luce...Scintille di affetto alligna una solitudine greve (...) e il vento fruga fra le piaghe (..) ecc.) Indubbiamente, ancora una volta, con quest'opera Vito Sorrenti ha dimostrato che la poesia (forse più della narrativa) è necessaria per leggere il cambiamento, coltivare l'identità individuale e la memoria collettiva e culturale di un Paese, senza l'incertezza del verso, il contorcimento di parole, ma attraverso la spontaneità e la moderatezza di stile, la sobria architettura di strofe, attraverso un sistema armonico che mantiene la "grazia" verso quella concezione non comune dell'arte, che la "decadenza" della nostra cultura di oggi ha completamente irrigidito.
Susanna Pelizza
Susanna Pelizza
⚛ |
Recensione di Sandro Angelucci |
LIBRI IN VETRINA Recensioni e Note di Lettura
|
C'è un testo, tra quelli contenuti nella rac-colta, che riteniamo possa essere considerato chiave della recente fatica poetica di Vito Sorrenti: stiamo parlando di Verranno altri, una poesia che mette in luce - a nostro modo di vedere - il movente, la ragione determinante dell'elaborazione di questi versi. Leggiamola, per esteso, così che più chiaro si esplichi il nostro pensiero: "Verranno altri / e varcheranno l'oltre. / E l'occulto, l'astratto, il celeste / non avranno più segreti / per l'umana stirpe / che s'involerà come saetta / verso l'e-stremo limite del tutto. / Ma la morte. . . / La morte non sarà sconfitta / ché solo la morte / rende possibile la vita / in questo abisso di ferocia.". Cosa se ne arguisce? Senz'altro, in prima istanza, che il Nostro è profondamente amareggiato e deluso dall'uomo, dal suo comportamento irriverente nei confronti del mistero esistenziale, dalla cupidigia che ne connota le scelte e dall'efferatezza con cui risolve gran parte delle proprie azioni. La disperazione però - sebbene costantemente presente ed angosciata - non è mai totalmente inclusiva, nel senso che lascia comunque aperta la porta ad un moto di speranza; si tratta tuttavia di una possibilità extracorporea, ultra-terrena e quasi paradossale per il comune senso delle cose. Già, perché appellarsi alla morte come panacea e, in definitiva, ultimo appiglio cui afferrarsi per riconoscersi vivi può sembra-re, agli occhi dei più, la rassegnata consolazione di un animo letalmente ferito ed afflitto. Ma è soltanto un punto di vista ingannevole e superficiale: ad una lettura più attenta e consapevole difficilmente sfuggirà che il Poeta pensa la morte in termini vitali e affermativi, e ciò per sua precisa ammissione e libero consenso della sua stessa poesia. Sorrenti "intrattiene un rapporto intenso con la Morte, come evento che informa prepotentemente il vivere ad essa precedente" - avrà a dire Edvige Galbo, in sede di presentazione - evidenziando così la maniera, il sistema attraverso il quale un'"alterità inanticipabile" entra in relazione con il quotidiano, con l'attualità trasformando il presente (sono ancora sue parole) "in un istante pieno e gravido di Senso". È dunque il binomio Morte-Senso che caratterizza queste pagine; un legame, però - si badi - non univoco ma interscambiabile e soprattutto non convenzionale ma rispettoso della vita nella sua interezza ed integrità. Non sorprenderà allora leggere che "Gli dei celesti non hanno dato all'uomo / una giovinezza senza fine / né gli hanno detto come / elude-re il fiume / che tutto trascina. . .", ma neppure dovrà stupire l'esortazione all'amico di "(prendere) il vigoroso: / quello spremuto in terra d'Enotria" e bere "in onore di Bacco" lasciando "agli stolti" la rincorsa forsennata del profitto, perché non di vuota ricerca del piacere si tratta bensì di quell'epicurea presa di coscienza che non si limita a saziare i bisogni ma, soddisfacendoli, tenta, per quanto le è consentito, d'avvicinarsi considerevolmente al vero. E se "sullo schermo del video / I. . . . / .. . lampi di gelida luce / I. . . . / I. . . parlano di bar-barie inaudita / e d'infinito dolore", c'è sempre una "bella rosa" disposta a dischiudere "il (suo) dolce velluto / I. . . . / prima che il tempo sciupi" anche "i (suoi) petali divini". È sotto questo aspetto che la poesia è una ladra: ". . . entra nel cuore / senza bussare / senza chiedere permesso. / I. . . . // e con mani tremanti / raccoglie frammenti / di inconsce memorie"; s'appropria di tutto, dall'angoscia all'amore (si nutre di questo) e, specialmente, s'impossessa del tempo, del nostro tempo; ma i poeti si lasciano derubare volentieri perché sanno bene che ogni cosa loro sottratta verrà regolarmente restituita centuplicata sotto forma di grazia e bellezza. L'avvilimento, che i versi di Sorrenti comunicano, forse, altro non è che l'attesa di una ricompensa di quel dono che, come soffice porporina, aspettano le "ali tarpate" di tutte le farfalle che ogni giorno "alle sei del mattino" s'in-filano nella metropolitana per andare "incontro alla vita".
Sandro Angelucci
Sandro Angelucci